giovedì 5 marzo 2015

CLASSIC BADASS: Baldus




M’è venuta la fantasia più che fantastica
Di cantare con le Muse ciccione la storia di Baldo.
Per la sua fama altisonante e il nome gagliardo
La terra trema e il Baratro
Si caga addosso dalla paura.

No, non abbiamo esagerato con il grog.

O forse sì, ma non è questo il punto.

Il punto è che i versi di cui sopra sono stati vergati nel 1517 dalla mano di un monaco benedettino (!) venticinquenne, di nome Teofilo Folengo, o se preferite Merlin Coccaio, oppure Limerno Pitocco.

Il suo nome di battesimo comunque era Girolamo.

Il fatto che non siano in molti a parlare di Teo Folengo non deve stupire. Fra i pochi a ricordarsi di lui troviamo Rabelais, Erasmo da Rotterdam e Giordano Bruno (be’, scusate se è poco). Sappiamo che si è girato i monasteri di mezza Italia, che aveva un debole per la bella vita e il gentil sesso, che somigliava in modo inquietante alla buon'anima di Margherita Hack, ma soprattutto che se ai suoi tempi fosse uscito D&D sarebbe stato un eccezionale dungeon master.


"Non me somiglia pe niente."

Possiamo facilmente immaginare lo scapestrato Teo nella sua cella monastica, mentre nasconde sotto la Bibbia la sua copia del Morgante di Gigi Pulci. Non c’è dubbio che il suo personaggio preferito sia quel pazzo criminale di Margutte. L’unico rammarico è che il Pulci lo faccia durare così poco.

O forse no.

In un impeto di fanboy-rage Teo decide di donare a Margutte una seconda vita, cucendogli addosso uno dei personaggi più bastardi di tutti i tempi – il briccone Cingar – co-protagonista di uno dei capolavori dimenticati del rinascimento: il Baldus.

Scopiazzatura?
Blasfemia?
Epic fail?

Nel 99,999998% dei casi diremmo di sì. Ma il nostro Teo è nato per l’eccezione.




C’è Atlantide, c’è Troia, c’è la Terra Santa, c’è Mordor, e per ultima, ma non meno importante, c’è Cipada in provincia di Mantova.

Alto medioevo. Una coppia di pellegrini bussa alla porta di Berto Panada, una buon’anima di contadino che non esita ad accoglierli e sfamarli. Grati per l’accoglienza, i pellegrini rivelano la loro identità: sono ser Guido di Francia e la principessa Baldovina, in fuga d’amore.

Berto, cuore tenero, nota che la principessa è in stato interessante, sicché offre ai due innamorati la sua ospitalità. Ser Guido accetta per metà: lascia la moglie alle cure del buon contadino, mentre lui parte per la Terra Santa in cerca di un regno da conquistare.

Il tempo passa, Baldovina partorisce un bel bimbo che chiamerà Baldus. Baldus è l’emblema della salute. Viene al mondo ridendo, brandisce bastoni come spade, canne come lance, ancora in tenera età impara a leggere (e subito diventa fan dei poemi epici), a sei anni ne dimostra dodici. È bello, forte, intelligente da fare schifo.

Va da sé che tutti gli altri bambini del paese lo odiano a morte. Un bel giorno si coalizzano e tentano di suonargliele.



La rissa fra marmocchi degenera, Baldus non si tiene, ci scappano morti e feriti. Alla fine devono intervenire le guardie che dopo una lotta estenuante riescono ad arrestare il ragazzetto scatenato.

L’adolescenza di Baldus sarà tutta così. Furfante, scavezzacollo, spesso sfrontato, sempre gagliardo, diventa ben presto il capo di una gang giovanile, che sarà anche il suo party per il resto della campagn... pardon, opera:

Il gigante Fracasso, il quale “con due dita sradica una quercia secolare, con la stessa facilità con cui i contadini sradicano i porri”.

Il canuomo Falchetto, che “aveva forma di uomo fino al culo, di lì in poi, fino alla coda, aveva forma di cane”.

E soprattutto lui, il preferito delle mamme – Cingar: “scampaforca, farabutto, ladro, sempre pronto alle beffe, mala guida per il viandante: a chi gli domandava la strada giusta per il viaggio, indicava quella sbagliata.” Ogni volta che finisce sulla forca arriva sempre Baldo a salvarlo; non lascia frutti nei frutteti, non verze negli orti, non galline nei pollai.



Quando Baldus verrà rinchiuso in una segreta a seguito di un complotto del fratellastro Zambello, sarà Cingar a trarlo d’impiccio. E a vendicarlo, naturalmente.

La vendetta di Cingar rappresenta uno degli apici del delirio coprolalico di Teo Folengo e merita un discorso a parte.

Tutto comincia con Zambello che un bel giorno decide di manifestare la sua disistima per Berta, moglie di Baldus, prendendo l’abitudine di lasciarle ogni mattina un ricordino marrone fumante davanti all’uscio di casa. Cingar fiuta il colpevole e subito ordisce un contro-inganno. Raccoglie i corpi del reato in un vaso, li ricopre di uno spesso strato di miele e li porta al mercato. Qui aspetta Zambello al varco, ringraziandolo per il prezioso regalo che ogni mattina lascia davanti alla casa della gentildonna.



Zambello ci appare scettico:

Mi faresti buttar via ben in fretta le mutande
Se credessi che tu puoi vender quel che io caco.

“Non ci credi?”, risponde Cingar. “Te lo dimostro subito.”
Entra in una drogheria e domanda: “SALVE LE INTERESSA QUESTA MERDA di api”.

‘Di api’ lo dice piano, e nel brusio della folla Zambello non sente.

Lo speziale puccia il dito nel miele, lo pilucca ben bene, affare fatto. Cingar gli lascia tutto il vaso.
Zambello è senza parole. Il giorno dopo torna dal mercante tutto bucolico, con un bel catino fumante: “MERDA, MERDA BUONA! MERDA CACATA FRESCA!”

Lo speziale, intanto, ha scoperto l’inganno.



Dopo un’evasione in grande stile dalle segrete di Mantova, Baldus e Cingar insieme a una ciurma di nuovi compagni s’imbarcano per la Turchia. Affrontano tempeste devastanti, pirati sanguinari, l’isola-balena di Pandraga...

Ok, qua forse conviene rallentare un attimo.

L’isola-balena della strega meretrice Pandraga è a tutti gli effetti una balena, che a suo tempo la fattucchiera ha incantato per farla stare ferma, mentre uno stuolo di demoni la caricava di terreno, alberi, fiumi e montagne.
A lungo Pandraga è sfuggita alla Protezione Animali, ma quando arriva Baldus scatta inevitabile la battaglia senza quartiere.

La strega scatena la potenza di tutti i demoni e di un terribile Moloch. Il fragilotto Cingar si trova a mal partito e per poco non ci lascia le penne. Riesce a salvarsi solo perché tira un diciotto.

No, non è una metafora. Sono le parole di Teo Folengo: “...Allora tirò Cingar un diciotto.

"O dovevo tirare il d20?"

Lo scontro infuria e i diavoli prendono una quantità tale di mazzate da richiamare Lucifero stesso, che in groppa alla sua mula sale dalle profondità dell'Abisso per dare un’occhiata al campo di battaglia, prima di essere ricacciato pure lui a colpi di crocifisso.

Il viaggio prosegue in una grotta oscura abitata da un drago. È buio pesto, e per evitare di prendersi a sberle fra loro i nostri eroi decidono di lasciare lo scontro ai cavalli, calorosamente incitati alla battaglia.

I cavalli se la cavano benone: il drago è sistemato, si prosegue. Dalle profondità della grotta appare Merlino – non il mago di Artù, ma il dungeon mast... ehm, l’autore in persona: Merlin Coccaio. Egli rivela a Baldus e i suoi che è loro compito scendere nell’Inferno e sconfiggere il male. Nulla di meno, nulla di più.

Dopo essersi riforniti dell’opportuno equipaggiamento leggendario (le armi di Ettore, Achille e Orlando, l’elmo di Nembrod e il battacchio +5 di Morgante) (ottomila chili di battacchio, apprendiamo), i nostri si avventurano fino alle sorgenti del Nilo, maltrattano il vecchio dio del fiume, si rifocillano di vipere marce e drago arrosto all’osteria dell’Inferno, infine raggiungono le rive dell’Acheronte.

Qua trovano una folla di anime in attesa di essere trasportate sull’altra riva. C’è traffico, si formano code, guardi c’ero prima io, ma lei lo ha preso il ticket, oh ma che è sta puzza di ascella, dove diavolo si è cacciato il traghettatore.
In effetti Caronte non c’è: è andato a prendere l’ennesimo due di picche dalla Furia Tisifone, di cui è follemente innamorato.



La puzza dilaga, il gigante Fracasso si stizzisce. Supera l’Acheronte con un balzo, afferra Caronte per la collottola e lo scaraventa sull’altra riva, mandandogli dietro la barca con un calcio.

Passato il fiume, i nostri sprofondano nella casa della Fantasia: “piena di un rumore silenzioso o di un tacito strepito, di un moto immobile, di un ordine disordinato, di una norma senza regola e arte.

In questo delirio psichedelico di massime epicuree, dialettica tomistica e sogni di Alberto Magno, Baldus viene avvicinato da uno strano giullare, che lo conduce fino a una zucca grande come una montagna, dimora di poeti, cantori, astrologi... e barbieri stipendiati da Plutone, esperti nell’arte di cavare i denti ai cantastorie – uno per ogni bugia. E più denti sono strappati, più ne ricrescono.

E qui, con una mossa di poetica crudeltà, o forse con la pigrizia specifica del dungeon master, Teo Folengo si ferma.

La Zucca è la mia patria, occorre che qui io perda i denti,
Tanti quante le menzogne che ho messo nel libro immenso.
Baldo, ti saluto. Ti lascio finalmente all’opera di un altro...



L’edizione definitiva del Baldus uscirà a metà degli anni ’30 del Cinquecento. Venticinque canti in latino maccheronico, una lingua che Teo Folengo studia e padroneggia con la stessa dedizione che Tolkien riserva al Sindarin.

Dopo una vita passata alternativamente fra monasteri e gozzoviglia, Teo morirà nel 1547, non ancora cinquantenne, in sospetto di eresia.

Nel 1596 papa Clemente VIII inserirà il Baldus nell’indice dei libri proibiti.

Poco male: noi possiamo giurare di averne vista una copia sul comodino di Crom.

Perdonate se abbiamo riempito di tale e tanta roba le orecchie:
del resto è meglio riempirne l’orecchio piuttosto che la bocca.
State bene!





Fonte:
Teofilo Folengo, Baldus, a cura di Chiesa M. (2006, UTET: Torino)


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