Di
cantare con le Muse ciccione la storia di Baldo.
Per
la sua fama altisonante e il nome gagliardo
La
terra trema e il Baratro
Si
caga addosso dalla paura.
No, non abbiamo esagerato con il
grog.
O forse sì, ma non è questo il
punto.
Il punto è che i versi di cui sopra
sono stati vergati nel 1517 dalla mano di un monaco benedettino (!)
venticinquenne, di nome Teofilo Folengo, o se preferite Merlin Coccaio, oppure
Limerno Pitocco.
Il suo nome di battesimo comunque
era Girolamo.
Il fatto che non siano in molti a parlare di Teo Folengo non deve stupire. Fra i pochi a ricordarsi di lui troviamo Rabelais, Erasmo da Rotterdam e Giordano
Bruno (be’, scusate se è poco). Sappiamo che si è girato i monasteri di mezza
Italia, che aveva un debole per la bella vita e il gentil sesso, che somigliava in modo inquietante alla buon'anima di Margherita Hack, ma soprattutto
che se ai suoi tempi fosse uscito D&D sarebbe stato un eccezionale dungeon
master.
"Non me somiglia pe niente."
Possiamo facilmente immaginare lo
scapestrato Teo nella sua cella monastica, mentre nasconde sotto la Bibbia la
sua copia del Morgante di Gigi Pulci. Non c’è dubbio che il suo personaggio preferito sia quel pazzo
criminale di Margutte. L’unico rammarico è che il Pulci lo faccia durare così
poco.
O forse no.
In un impeto di fanboy-rage
Teo decide di donare a Margutte una seconda vita, cucendogli addosso uno dei
personaggi più bastardi di tutti i tempi – il briccone Cingar – co-protagonista
di uno dei capolavori dimenticati del rinascimento: il Baldus.
Scopiazzatura?
Blasfemia?
Epic fail?
Nel 99,999998% dei casi diremmo di
sì. Ma il nostro Teo è nato per l’eccezione.
C’è Atlantide, c’è Troia, c’è la Terra Santa, c’è Mordor, e per ultima, ma non meno importante, c’è Cipada in provincia di Mantova.
C’è Atlantide, c’è Troia, c’è la Terra Santa, c’è Mordor, e per ultima, ma non meno importante, c’è Cipada in provincia di Mantova.
Alto medioevo. Una coppia di pellegrini bussa alla porta di
Berto Panada, una buon’anima di contadino che non esita ad accoglierli e
sfamarli. Grati per l’accoglienza, i pellegrini rivelano la loro identità: sono
ser Guido di Francia e la principessa Baldovina, in fuga d’amore.
Berto, cuore tenero, nota che la principessa è in stato
interessante, sicché offre ai due innamorati la sua ospitalità. Ser Guido
accetta per metà: lascia la moglie alle cure del buon contadino, mentre lui
parte per la Terra Santa in cerca di un regno da conquistare.
Il tempo passa, Baldovina partorisce un bel bimbo che chiamerà
Baldus. Baldus è l’emblema della salute. Viene al mondo ridendo, brandisce
bastoni come spade, canne come lance, ancora in tenera età impara a leggere (e subito
diventa fan dei poemi epici), a sei anni ne dimostra dodici. È bello, forte,
intelligente da fare schifo.
Va da sé che tutti gli altri bambini del paese lo odiano a
morte. Un bel giorno si coalizzano e tentano di suonargliele.
La rissa fra marmocchi degenera, Baldus non si tiene, ci
scappano morti e feriti. Alla fine devono intervenire le guardie che dopo una
lotta estenuante riescono ad arrestare il ragazzetto scatenato.
L’adolescenza di Baldus sarà tutta così. Furfante,
scavezzacollo, spesso sfrontato, sempre gagliardo, diventa ben presto il capo
di una gang giovanile, che sarà anche il suo party per il resto della campagn... pardon, opera:
Il gigante Fracasso,
il quale “con due dita sradica una quercia secolare, con la stessa facilità con
cui i contadini sradicano i porri”.
Il canuomo Falchetto,
che “aveva forma di uomo fino al culo, di lì in poi, fino alla coda, aveva
forma di cane”.
E soprattutto lui, il preferito delle mamme – Cingar: “scampaforca, farabutto,
ladro, sempre pronto alle beffe, mala guida per il viandante: a chi gli
domandava la strada giusta per il viaggio, indicava quella sbagliata.” Ogni
volta che finisce sulla forca arriva sempre Baldo a salvarlo; non lascia
frutti nei frutteti, non verze negli orti, non galline nei pollai.
Quando Baldus verrà rinchiuso in una segreta a seguito di un
complotto del fratellastro Zambello, sarà Cingar a trarlo d’impiccio. E a
vendicarlo, naturalmente.
La vendetta di Cingar rappresenta uno degli apici del delirio
coprolalico di Teo Folengo e merita un discorso a parte.
Tutto comincia con Zambello che un bel giorno decide di
manifestare la sua disistima per Berta, moglie di Baldus, prendendo l’abitudine
di lasciarle ogni mattina un ricordino marrone fumante davanti all’uscio di
casa. Cingar fiuta il colpevole e subito ordisce un contro-inganno. Raccoglie i
corpi del reato in un vaso, li ricopre di uno spesso strato di miele e li porta
al mercato. Qui aspetta Zambello al varco, ringraziandolo per il prezioso
regalo che ogni mattina lascia davanti alla casa della gentildonna.
Zambello ci appare scettico:
Mi faresti buttar via ben in fretta le mutande
Se credessi che tu puoi vender quel che io caco.
“Non ci credi?”, risponde Cingar.
“Te lo dimostro subito.”
Entra in una drogheria e domanda:
“SALVE LE INTERESSA QUESTA MERDA di api”.
‘Di api’ lo dice piano, e nel
brusio della folla Zambello non sente.
Lo speziale puccia il dito nel
miele, lo pilucca ben bene, affare fatto. Cingar gli lascia tutto il vaso.
Zambello è senza parole. Il giorno
dopo torna dal mercante tutto bucolico, con un bel catino fumante: “MERDA, MERDA BUONA! MERDA CACATA FRESCA!”
Lo speziale, intanto, ha scoperto
l’inganno.
Dopo un’evasione in grande stile
dalle segrete di Mantova, Baldus e Cingar insieme a una ciurma di nuovi
compagni s’imbarcano per la Turchia. Affrontano tempeste devastanti, pirati
sanguinari, l’isola-balena di Pandraga...
Ok, qua forse conviene rallentare
un attimo.
L’isola-balena della strega
meretrice Pandraga è a tutti gli effetti una balena, che a suo tempo la
fattucchiera ha incantato per farla stare ferma, mentre uno stuolo di demoni la
caricava di terreno, alberi, fiumi e montagne.
A lungo Pandraga è sfuggita alla
Protezione Animali, ma quando arriva Baldus scatta inevitabile la
battaglia senza quartiere.
La strega scatena la potenza di
tutti i demoni e di un terribile Moloch. Il fragilotto Cingar si trova a mal
partito e per poco non ci lascia le penne. Riesce a salvarsi solo perché tira
un diciotto.
No, non è una metafora. Sono le
parole di Teo Folengo: “...Allora tirò Cingar un diciotto”.
Lo scontro infuria e i diavoli
prendono una quantità tale di mazzate da richiamare Lucifero stesso, che in
groppa alla sua mula sale dalle profondità dell'Abisso per dare un’occhiata al campo di battaglia,
prima di essere ricacciato pure lui a colpi di crocifisso.
Il viaggio prosegue in una grotta oscura
abitata da un drago. È buio pesto, e per evitare di prendersi a sberle fra loro
i nostri eroi decidono di lasciare lo scontro ai cavalli, calorosamente
incitati alla battaglia.
I cavalli se la cavano benone: il drago è sistemato, si prosegue. Dalle profondità della grotta appare Merlino –
non il mago di Artù, ma il dungeon mast... ehm, l’autore in persona: Merlin
Coccaio. Egli rivela a Baldus e i suoi che è loro compito scendere nell’Inferno
e sconfiggere il male. Nulla di meno, nulla di più.
Dopo essersi riforniti
dell’opportuno equipaggiamento leggendario (le armi di Ettore, Achille e
Orlando, l’elmo di Nembrod e il battacchio +5 di Morgante) (ottomila chili di
battacchio, apprendiamo), i nostri si avventurano fino alle sorgenti del Nilo,
maltrattano il vecchio dio del fiume, si rifocillano di vipere marce e drago
arrosto all’osteria dell’Inferno, infine raggiungono le rive dell’Acheronte.
Qua trovano una folla di anime in
attesa di essere trasportate sull’altra riva. C’è traffico, si formano code,
guardi c’ero prima io, ma lei lo ha preso il ticket, oh ma che è sta puzza di
ascella, dove diavolo si è cacciato il traghettatore.
In effetti Caronte non c’è: è
andato a prendere l’ennesimo due di picche dalla Furia Tisifone, di cui è
follemente innamorato.
La puzza dilaga, il gigante
Fracasso si stizzisce. Supera l’Acheronte con un balzo, afferra Caronte per la
collottola e lo scaraventa sull’altra riva, mandandogli dietro la barca con un
calcio.
Passato il fiume, i nostri
sprofondano nella casa della Fantasia: “piena di un rumore silenzioso o di
un tacito strepito, di un moto immobile, di un ordine disordinato, di una norma
senza regola e arte.”
In questo delirio psichedelico di
massime epicuree, dialettica tomistica e sogni di Alberto Magno, Baldus viene
avvicinato da uno strano giullare, che lo conduce fino a una zucca grande come
una montagna, dimora di poeti, cantori, astrologi... e barbieri stipendiati da
Plutone, esperti nell’arte di cavare i denti ai cantastorie – uno per ogni bugia. E più denti
sono strappati, più ne ricrescono.
E qui, con una mossa di poetica
crudeltà, o forse con la pigrizia specifica del dungeon master, Teo Folengo si
ferma.
La
Zucca è la mia patria, occorre che qui io perda i denti,
Tanti
quante le menzogne che ho messo nel libro immenso.
Baldo,
ti saluto. Ti lascio finalmente all’opera di un altro...
L’edizione definitiva del Baldus uscirà a metà degli anni ’30
del Cinquecento. Venticinque canti in latino maccheronico, una lingua che Teo
Folengo studia e padroneggia con la stessa dedizione che Tolkien riserva al Sindarin.
Dopo una vita passata alternativamente fra monasteri e
gozzoviglia, Teo morirà nel 1547, non ancora cinquantenne, in sospetto di
eresia.
Nel 1596 papa Clemente VIII inserirà il Baldus nell’indice dei libri proibiti.
Poco male: noi possiamo giurare di
averne vista una copia sul comodino di Crom.
Perdonate
se abbiamo riempito di tale e tanta roba le orecchie:
del
resto è meglio riempirne l’orecchio piuttosto che la bocca.
State
bene!
Fonte:
Teofilo Folengo, Baldus, a cura
di Chiesa M. (2006, UTET: Torino)
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